Intervento di Giovanna Ubaldeschi al Workshop “La Guerra dell’Euro” del 22 Giugno 2013
Grazie all’analisi fatta da Valerio Colombo e Nino Galloni abbiamo compreso meglio la gravità del momento attuale e visto possibili vie d’uscita.
Cosa possiamo fare? Nell’immediato occorre sviluppare un forte movimento di opinione, che possa fare pressione perché questa guerra abbia termine prima che si compia il disastro. Bisogna diffondere la consapevolezza della situazione in cui ci troviamo e smentire le voci rassicuranti che vengono dal governo e dai principali formatori di opinione.
Se questa è una guerra, allora dobbiamo organizzare una sorta di “resistenza” nonviolenta, diversa e multiforme, basata sull’auto-formazione e sulla diffusione di strumenti informativi di buon livello e facilmente comprensibili. Tutto questo con molta urgenza.
Ma bisogna andare oltre, perché non ci interessa ritornare alla situazione da cui veniamo, cercare di restaurare il modello sociale e politico che ha prodotto, o ha consentito che si producesse, questa tragedia.
Occorre dirigersi senza esitazioni verso la realizzazione della democrazia reale. “La sovranità appartiene al popolo”, recita la nostra Costituzione… ebbene, allora il popolo deve conquistare la propria sovranità. È chiaro che non è più possibile continuare a delegare tale sovranità in bianco e affidarla interamente ai politici, con la possibilità di revocarla solo alle elezioni successive. E questo non perché la “casta” sia corrotta (falso argomento che delegittima la rappresentatività democratica e apre la strada a pericolose derive autoritarie), ma perché la classe politica è infiltrata dagli interessi del capitale finanziario, ha tradito il mandato ricevuto dagli elettori e non ci sono garanzie che non continuerà a farlo, indipendentemente dalle persone che la compongano, fino a che non cambieranno le forme della partecipazione democratica e i cittadini non acquisiranno il potere reale.
Alle forme della Democrazia Rappresentativa devono aggiungersi quelle della Democrazia Diretta:
- referendum propositivi, abrogativi e confermativi;
- consultazione vincolante della popolazione di fronte a ogni decisione rilevante in materia economica, politica o sociale;
- elezione diretta dei tre poteri dello Stato;
- decentralizzazione;
- rappresentatività delle minoranze;
- revoca dei mandati;
- responsabilità politica.
In un regime di Democrazia Reale il potere risiederà nella base sociale e gli eletti, a tutti i livelli, saranno davvero dei rappresentanti dei cittadini che avranno soltanto il compito di coordinare e implementare le loro decisioni.
Potrebbe nascere una società completamente nuova, che persegua il bene comune e non la difesa degli interessi particolari di quell’1% che oggi detiene il potere economico. Anzi, uno Stato in mano ai cittadini saprebbe disciplinare il capitale finanziario, impedire la concentrazione della ricchezza e stabilire una nuova alleanza tra capitale produttivo e lavoro; potrebbe imboccare la strada di uno sviluppo sostenibile e garantire ad ogni essere umano di avere una vita dignitosa assicurando a tutti, in primo luogo, il diritto a salute ed educazione gratuite e del massimo livello.
Ma alcuni scettici sostengono che la società non sia pronta per la Democrazia reale e… non hanno tutti i torti. Vi immaginate cosa potrebbe accadere se la si applicasse adesso, in questa giungla governata dal principio del “tutti contro tutti”?
Non siamo pronti, ma questa crisi, questa guerra, può costituire una grande occasione per generare nelle persone un cambiamento profondo, a partire dal quale l’esercizio della sovranità popolare potrebbe diventare il motore di un autentico progresso.
Le grandi crisi, sempre, hanno indotto alla riflessione, alla revisione dei propri errori, sia nel caso di crisi sociali, sia in quello di crisi personali. Dopo le guerre c’è la ricostruzione, si può rifondare la società; dopo la seconda guerra mondiale, per esempio, c’è stato un momento molto importante di rinnovamento di valori, basta pensare alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e, qui da noi, alla Costituzione, che furono scritte subito dopo la fine del conflitto.
E quante volte, nel mezzo di una crisi personale profonda, abbiamo detto a noi stessi “Questa cosa non la farò mai più” e ci siamo lanciati verso qualcosa di nuovo?
Le crisi non sono sempre un male, sono anche un momento nel quale ciò che si credeva prima si destabilizza e il cambiamento diventa possibile.
Per poter creare una società nuova dobbiamo abbandonare i valori sui quali si regge quella attuale, ma per abbandonarli dobbiamo prima riconoscerne il fallimento.
Forse non è tanto difficile ammettere il fallimento del sistema sociale, economico e politico nel quale viviamo, soprattutto ora che ha gettato la maschera e si è rivelato per ciò che realmente è: un sistema completamente inumano e spietato.
Più difficile, invece, è ammettere il fallimento di questo sistema dentro di noi. E che cosa è fallito, o cosa deve fallire, in noi? Un sistema di credenze.
Non voglio annoiarvi dilungandomi su temi che tutti conoscete bene, ma vorrei solo brevemente ricordare che le credenze, ciò che crediamo di noi stessi, degli altri, dell’esistenza umana, del mondo, di cosa ci renderà felici, configurano la realtà di ciascuno e orientano la sua azione nella vita. Ovviamente, quando si tratta di credenze tanto diffuse da caratterizzare un orizzonte culturale, larghe fasce della società concordano nella stessa visione del mondo.
Quando le cose vanno male, quando vanno molto male, come accade in questo momento, le credenze che finora ci avevano guidato crollano e noi sperimentiamo il loro fallimento, cioè riconosciamo che quello che credevamo valido e indubitabile, in verità non lo era.
Il fallimento non ha un buon sapore, anzi, è doloroso; per di più, socialmente è considerato una tra le peggiori disgrazie. Essere un fallito… tremendo! Non si è riusciti a realizzare quello che si doveva realizzare e, inoltre, non si è più in condizione di riprovarci, perché il fallimento è considerato uno stato definitivo. Chi ci cade, non ne esce più. Ha perso tutte le occasioni.
Invece è vero il contrario. È solo grazie al riconoscimento del fallimento, che possiamo liberarci da un sistema di credenze che non ha funzionato e aprire la coscienza alla ricerca di qualcosa di nuovo, alla ricerca di un nuovo sguardo, di una nuova realtà da costruire.
Ora vorrei proporvi di riflettere insieme su alcune delle credenze che, secondo me, sono fallite definitivamente e che è meglio abbandonare al più presto se vogliamo andare verso qualcosa di nuovo. Sicuramente molte delle credenze che elencherò non vi appartengono, ma forse qualcuna sì…
Credenza di vivere in una democrazia.
Credenza nel sistema rappresentativo, nel fatto di dover delegare le questioni importanti agli specialisti.
Credenza che l’Europa potesse continuare a vivere nel suo orticello felice, mentre nella maggior parte del pianeta si pativano la miseria e le guerre; e che mai a noi europei sarebbero stati sottratti i diritti e il benessere di cui godevamo.
Ora viene un pacchetto di credenze abbastanza stupide: quelle neoliberiste, che si sono installate negli anni ’90 e che ancora molti formatori d’opinione irriducibili proclamano. Anche se sono in vertiginosa decadenza, qualcuno ci crede ancora:
Credenza che, grazie al liberismo finanziario, la ricchezza si sarebbe moltiplicata e travasata verso la base sociale e ognuno sarebbe potuto diventare ricco
Credenza che il liberismo sia l’unico modello economico possibile.
Credenza nell’auto-regolazione dei mercati, entità sagge e neutrali.
Credenza nel “costo del denaro”, cioè che sia giusto prestare denaro con interessi (usura).
Credenza che lo Stato sia d’intralcio alla prosperità della popolazione.
Infine, alcune credenze più profonde:
Credenza nel Paradigma economicista, cioè ubicare l’economia come centro di gravità della vita delle persone e dei paesi, quando dovrebbe semplicemente svolgere la funzione pratica di produrre e amministrare risorse, subordinata a un progetto sociale che metta al centro le persone e i loro bisogni.
Credenza nell’individualismo, nel “mi faccio i fatti miei”, “non faccio male a nessuno”, “se starò alle regole me la caverò”. Gli altri sono concorrenti e nemici.
Credenza che il sistema sia migliorabile, che possa essere riformato senza metterlo in discussione dalle radici.
Credenza che la violenza sia una componente essenziale della “natura umana” e che non la si possa eliminare, ma soltanto mitigare. Questa credenza porta inevitabilmente a giustificare il fatto che la violenza pervada i rapporti sociali, quelli economici e quelli interpersonali. La si accetta come un dato di fatto.
Ora, lasciando perdere i paradigmi di stampo neoliberista, che stanno crollando da soli e che certamente nessuno qui condivide, credo che valga la pena di riflettere un po’ più profondamente sul fallimento di tre grandi paradigmi appena citati: la democrazia rappresentativa (che possiamo definire anche democrazia formale), l’economicismo e la violenza. Essi costituiscono il cuore di un modello sociale, culturale e politico che ha permesso al capitale finanziario di appropriarsi del potere e di dominare le vite di miliardi di persone sul pianeta, condannandole alla miseria e all’emarginazione.
Sono i paradigmi di fondo di un sistema che ha fallito, perché non porta alla felicità, perché è mostruoso e crudele.
Democrazia formale, economicismo e violenza sono i paradigmi che devono essere messi in discussione, se vogliamo non solo uscire dalla crisi attuale, ma anche e soprattutto dare origine a un nuovo modello di società.
Ma come troveremo la strada verso questo modello? Quale sarà il nuovo sistema di credenze che lo ispirerà?
Difficile saperlo. Posso dirvi come lo vorrei io, come lo vorremmo noi umanisti: un sistema di credenze che abbia le radici nella profondità di noi stessi e sia espressione di una nuova spiritualità, che affermi che la vita ha un senso.
Un sistema di valori che ponga il principio “Tratta gli altri come vuoi essere trattato” alla base di una nuova etica e riconosca che non ci sarà progresso, se non sarà di tutti e per tutti.
Una cultura che rifiuti la violenza in tutte le sue forme, fino al punto di farci sentire ripugnanza fisica verso di essa.
C’è una nuova sensibilità che si sta manifestando oggi nel mondo, la intravediamo nelle proteste giovanili in Spagna, Turchia, Grecia, Brasile, l’abbiamo vista in Nord Africa. Questa sensibilità chiede un cambiamento profondo e lo fa senza violenza. Chiede libertà, pace, solidarietà e uguaglianza di diritti per tutti. Tanti piccoli “io” separati si uniscono in un grande “noi” molto potente. Sono focolai di qualcosa di nuovo che si fa strada nel nostro mondo.
Per finire, vorrei leggervi alcune parole, pronunciate da Silo, il mio Maestro e fondatore del Movimento Umanista, nel 2005:
“In alcuni momenti della storia si leva un clamore, una straziante richiesta degli individui e dei popoli. Allora, dal Profondo arriva un segnale. Magari questo segnale fosse tradotto con bontà nei tempi che corrono, fosse tradotto per superare il dolore e la sofferenza. Perché dietro questo segnale stanno soffiando i venti del grande cambiamento”.
Che la risposta al clamore dei popoli sia tradotta con bontà…