Articolo pubblicato su Pressenza.com
Il libro di Guillermo Sullings “Oltre il capitalismo: economia mista” è stato appena pubblicato in italiano e l’autore ha in programma un giro di presentazioni in Italia nel mese di novembre. Una buona occasione per parlare con lui dei temi del libro e non solo….
Guillermo, questo libro esce in italiano vari anni dopo la sua pubblicazione originale in spagnolo. Qual è la tua sensazione al riguardo con il passare del tempo?
La prima edizione in spagnolo risale a metà del 2000, casualmente un momento di transizione verso un cambiamento di millennio, che ha poi portato con sé molti eventi di destabilizzazione a livello mondiale. Visto in retrospettiva, oggi potrei dire che durante gli ultimi anni non solo i temi trattati sono ancora molto attuali, ma che hanno anche assunto maggiore rilevanza e visibilità per le società e sono stati analizzati da numerosi specialisti. Se prescindiamo da alcuni riferimenti e dati legati all’epoca e al luogo in cui è stato scritto il libro, che ovviamente sono andati cambiando con il passare del tempo, i temi principali sono ancora attuali e le sfide rispetto a ciò che bisogna trasformare nell’economia sono ogni giorno più urgenti.
Credo che in questi anni in molti paesi le società abbiano iniziato a comprendere che il capitalismo selvaggio neoliberista ci sta portando al disastro. In altri paesi, che già avevano abbandonato l’opzione neoliberista, si stanno evidenziando i limiti delle politiche economiche meramente progressiste. Per questo mi pare che sia un buon momento per potenziare di nuovo con forza i temi principali dell’Economia Mista.
Potresti sintetizzare questi temi?
Per dare un maggiore contesto al lettore non specialista, nel libro vengono analizzati i differenti sistemi economici esistenti e si trattano temi fondamentali come il concetto di proprietà, il lavoro, il consumo, gli investimenti, le finanze, le politiche fiscali, i prezzi e altri argomenti rilevanti per qualsiasi analisi economica. Se però vogliamo riferirci alle proposte centrali io direi che queste sono il concetto di uno Stato Coordinatore, quello di una banca statale senza interessi, la partecipazione dei lavoratori ai guadagni e alla proprietà delle imprese, la riformulazione integrale della politica fiscale e un nuovo paradigma di crescita e consumo. Non è facile sintetizzare tutti questi temi, ma cercherò di ampliare un poco i concetti.
Quando parliamo di uno Stato Coordinatore cerchiamo di spiegare che sono fallite sia l’opzione socialista di uno Stato che centralizza il controllo di tutta l’economia, sia la visione liberista di uno Stato passivo che lascia i mercati liberi di agire. Davanti a questa polarizzazione ideologica e all’abisso esistente tra la microeconomia e la macroeconomia, è necessaria un’integrazione sinergica tra il pubblico e il privato, sviluppando strumenti di politica economica mista che aiutino a coordinare la realizzazione di obiettivi sostenibili di investimento e consumo. Per questo c’è bisogno di uno Stato basato su una Democrazia Reale, non su di una dittatura e neanche su una democrazia formale al servizio dei potenti.
Quando parliamo di una banca statale senza interessi, stiamo parlando di adottare il concetto che il denaro è un bene pubblico e che come per gli spazi pubblici, la sua circolazione non può essere monopolizzata e manipolata dagli speculatori. Dunque bisogna dirlo chiaro e tondo: la gestione delle finanze va trasferirsi alla Banca Pubblica, mentre si va diluendo e smantellando il potere della Banca Privata.
Rispetto alla partecipazione dei lavoratori ai guadagni e alla proprietà delle imprese, non stiamo parlando di espropriazioni o cose del genere. Stiamo parlando di un nuovo concetto riguardo alla retribuzione dei lavoratori, che non si limiti solo a un salario, ma che accompagni l’evoluzione dei profitti imprenditoriali in una proporzione ragionevole. Nella misura in cui reinvestono questi profitti in capitale di lavoro, i lavoratori diventano proprietari nella stessa proporzione, con la corrispondente incidenza nelle decisioni da prendere.
In quanto alla riformulazione delle politiche fiscali, parliamo della necessità di garantire che si possa investire in campi importanti come la sanità, l’istruzione, le infrastrutture e altri in cui lo Stato non può essere assente, o che può delegare al settore privato. Parliamo però anche della possibilità che lo Stato finanzi progetti produttivi che tendano allo sviluppo sostenibile e al pieno impiego. Spieghiamo inoltre che è necessario forzare attraverso la politica fiscale il reinvestimento produttivo dei profitti dell’impresa, impedendo che alimentino la speculazione e l’usura della banca privata.
Riguardo a un nuovo paradigma di crescita e consumo, parliamo di invertire l’attuale tendenza del consumismo irrazionale, basata sull’idea di una crescita illimitata. Si sa che se si volesse estendere a tutti gli abitanti del mondo il modello attuale di consumo dei paesi più sviluppati, sarebbero necessari oltre cinque pianeti. Questa tendenza dunque ci porta necessariamente al collasso ecologico e sociale.
Il tuo è un libro per “non specialisti”, eppure il tema economico sembra ancora riservato agli “specialisti”; il tuo libro potrebbe servire a restituire l’economia al cittadino comune?
Io cerco sempre di spiegare le cose perché le capiscano tutti e credo che sia possibile farlo, almeno quando si parla di politiche economiche. Se però vogliamo toccare temi più tecnici, abbiamo bisogno di un linguaggio più specializzato e anche di altri specialisti in grado di spiegarci le complessità intrinseche di alcune operazioni finanziarie o dei cicli produttivi. Tutto questo però non è indispensabile per comprendere i temi generali e la direzione che le cose dovrebbero prendere. E quando qualche economista pretende di spiegarci con complesse formule matematiche che è impossibile risolvere la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, o prescindere dalla speculazione finanziaria ….. mm, questo mi puzza. Può avere tutti i titoli accademici del mondo, ma sappiamo già per chi lavora e questo lo scredita.
Ma soprattutto credo che sia necessario parlare in modo semplice perché le nostre proposte non sono destinate agli economisti e ai politici complici del potere finanziario internazionale; possono anche capirci, infatti, ma non muoveranno un dito per cambiare le cose. Chi ci deve comprendere è la gente comune, sono quelli colpiti dal sistema, perché vedano che c’è una luce alla fine del tunnel.
Già prima del tuo libro gli umanisti hanno realizzato studi sulla validità di forme di economia mista nella società attuale: come si sta sviluppando questo tema? C’è qualche progresso?
C’è molta gente che si è messa ad approfondire alcuni aspetti dell’economia in totale sintonia con le proposte enunciate nel libro. Molte sono imprese cooperative o con partecipazione dei lavoratori. I risultati sono diversi, giacché l’amministrazione di una’impresa richiede un cambiamento culturale perché le trasformazioni funzionino. Non capire questo può causare trasformazioni inefficienti.
Ci sono comunque esperienze interessanti. Per definizione l’Economia Mista richiede la partecipazione dello Stato, cosicché ciò che si può fare come espressione della volontà di persone isolate è molto interessante, ma limitato. Direi però che in vari paesi alcuni governi progressisti (non perché abbiano letto il mio libro, ma forse per una sintonia storica), hanno fatto passi avanti alla ricerca di questa integrazione tra pubblico e privato. I risultati sono stati diversi e incompleti, giacché non si sono trasformate le strutture di base del sistema, ma prima o poi un governo deciso a cambiare l’economia a favore del suo popolo si troverà nella necessità di orientarsi verso un’Economia Mista.
Nella tua attività sociale hai sviluppato iniziative di economia di base; puoi raccontarci quelle che consideri più significative?
In realtà sono state esperienze molto di base, realizzate in Argentina all’inizio dello scorso decennio, in mezzo a una grande crisi con alti indici di disoccupazione. Abbiamo qualificato gruppi di disoccupati perché potessero trovare un’attività lavorativa e portarla avanti in forma cooperativa. Si trattava di seminari per imprenditori, in cui dedicavamo gran parte del tempo a trovare l’attività possibile per ogni gruppo, scartando false credenze o progetti poco realistici, fino ad arrivare a ciò che era realmente fattibile. In una seconda tappa, li formavano riguardo all’amministrazione di base di un’impresa e in una terza seguivamo ciò che veniva messo in moto. I risultati sono stati diversi, ma tutti abbiamo imparato molto da questa esperienza.
Pare di vedere un movimento internazionale e convergente di studio e di azione per costruire una nuova economia al servizio dell’essere umano: quali sono a tuo parere le correnti e le proposte più interessanti e affini all’Umanesimo Universalista?
Mi pare che dobbiamo distinguere ciò che potremmo definire una nuova sensibilità, direzioni convergenti e visioni più progressiste della realtà dalle vere e proprie proposte di trasformazione. Nel primo caso credo che negli ultimi anni sia cresciuta una visione critica del neoliberismo; c’è molta convergenza nella diagnosi della situazione, nell’indicazione delle responsabilità delle democrazie formali e della banca privata e nella descrizione generale della società in cui ci piacerebbe vivere.
In questo senso credo ci sia stata innanzitutto in vari paesi dell’America Latina, come reazione al saccheggio provocato dalle politiche neoliberiste degli anni Novanta, una corrente di governi progressisti che hanno cercato delle alternative. Al di là dei loro successi ed errori, questo dimostra che le popolazioni vogliono vivere in un altro modo. Poi, soprattutto a partire dalla crisi mondiale scoppiata nel 2008, sono emersi in diversi paesi movimenti sociali guidati dai giovani, che hanno messo in discussione il sistema economico e politico e che corrispondono quindi a uno sguardo e una sensibilità convergente con quelli dell’Umanesimo Universalista.
Per quanto riguarda gli economisti, i critici del neoliberismo oggi non si trovano solo tra quelli di sinistra; all’interno del cuore stesso del sistema, accademici di prestigio come Joseph Stiglitz, Paul Krugman, Jeffrey Sachs, Thomas Piketty e altri criticano in profondità temi centrali come il funzionamento del settore finanziario e la distribuzione dei redditi. Autori come Serge Latouche e Manfred Max Neef mettono in discussione anche gli aspetti di sostenibilità della crescita, inserendo la questione ecologica nella visione economica. E da molti anni Muhammad Yunus sta dimostrando nei fatti che un altro tipo di banca è possibile.
Credo pertanto che sempre più gente concordi con la necessità di cambiare il sistema economico, ma bisogna avanzare ancora molto perché questa vocazione di cambiamento riesca a trasformare il mondo. A livello di studiosi, ci sono molte analisi e diagnosi, ma quando si arriva alle proposte concrete spesso si naufraga nel riformismo, alcune volte si pecca di ingenuità e altre ci si limita ad enunciare delle aspirazioni. Riguardo ai movimenti sociali, la sfida sarà senz’altro applicare il loro potenziale nel campo delle trasformazioni politiche, se davvero si vuole passare dalla protesta alla presa di decisioni.
Molti sostengono che l’economia mondiale stia per crollare. Sei d’accordo con questa affermazione? Quali potrebbero essere i segnali di questo crollo?
In realtà stiamo già vivendo la prima parte di questo crollo; l’impatto della crisi finanziaria del 2008 si sente ancora e in vari paesi ancora non si sa come si uscirà dalla recessione e dalla disoccupazione. Non ci dimentichiamo che questa crisi, generata dallo scoppio di una gigantesca bolla speculativa, ha avuto dei precedenti in varie bolle esplose negli ultimi vent’anni. Insomma la tendenza a esplosioni ogni volta più gravi e frequenti è evidente. Se analizziamo alcune delle variabili più importanti di questa economia globale, possiamo osservare varie tendenze più o meno vicine al loro punto di saturazione e pertanto inclini a provocare dei crolli. Alcune sono causate dalla speculazione finanziaria; la crescente concentrazione della ricchezza nelle sue mani ha come contrapartita il crescente e ormai insostenibile livello di indebitamento di paesi, imprese e persone.
Un’altra tendenza ha a che vedere con l’iniqua distribuzione della ricchezza nel mondo; questa favorisce la concentrazione del capitale finanziario speculativo e inoltre genera conflitti e violenza sociale che possono a loro volta arrivare a livelli esplosivi. Un’altra tendenza è costituita dai límiti della crescita con l’attuale modello di consumismo, che sta già causando disastri ambientali irreversibili. Esso provocherà inoltre la scarsità di risorse vitali e l’aumento dei prezzi delle materie prime e degli alimenti, accellerando il dilagare della povertà più assoluta.
Dunque vari segnali dell’imminenza del crollo sono già evidenti, ma i tempi dei processi non sono tanto facili da prevedere. A loro volta i processi non sono lineari e la parola crollo potrebbe assumere diversi significati. Per esempio l’aumento dei conflitti bellici, la possibilità di un ritorno alla guerra fredda, gli interventi degli Stati Uniti e della Nato e la crescita del terrorismo, sebbene non siano variabili che si possono spiegare solo con ragioni economiche, influiscono però molto e lo faranno sempre di più man mano che le risorse strategiche scarseggeranno.
I segnali possono venire quindi da molte parti e di fatto stanno già apparendo. Neanche il processo in cui potrebbe sfociare il crollo del sistema è lineare: potrebbe succedere che in una situazione simile l’umanità ci ripensi e metta in moto un cambiamento verso un mondo migliore, ma potrebbero anche rafforzarsi la xenofobia, il fascismo e tutti i tipi di violenza. Dunque è meglio lavorare per il cambiamento prima che il crollo ci divori tutti.
Con i suoi governi “progressisti” l’America Latina è all’avanguardia di un processo di trasformazione economica? Possiamo sperare che da questo lato del pianeta arrivino segnali positivi?
Sarebbe alquanto pretenzioso affermare che l’America Latina sia l‘avanguardia di un processo di trasformazione economica, perché come dicevo prima i processi non sono lineari, né quelli che possono portare a un crollo dell’economia, né tanto meno quelli che potrebbero condurci a una trasformazione che preceda questo crollo, o ne attenui gli effetti. Credo che forse per l’impatto delle politiche neoliberiste degli anni Novanta su economie molto più deboli di quelle europee, la sofferenza della popolazione abbia accelerato la ricerca di alternative elettorali e l’arrivo al potere di governi più progressisti. Questo ha migliorato sensibilmente la situazione della gente, però bisogna dire che se non si trasformano le strutture fondamentali del sistema, si corre il rischio di un ristagno e poi una retrocessione; speriamo che non vada così e che si possa continuare ad avanzare.
Nel caso dell’Europa, forse il neoliberismo ha sedotto più a lungo le popolazioni, però le reazioni sociali sorte con l’esplosione della crisi mostrano che la gente non dorme e questo è interessante. Bisognerà vedere, come dicevo prima, se i movimenti sociali di rifiuto del sistema riusciranno a trasformare la politica per cambiare il sistema. In Europa c’è una difficoltà in più: finché si manterrà l’Eurozona, le trasformazioni dovranno riguardare tutto il continente. Questa difficoltà però potrebbe anche essere un buon motivo per formare un movimento sociale regionale che lavori per obiettivi comuni. Se questo dovesse accadere, forse i cambiamenti in Europa potrebbero essere più veloci più che in America Latina; nel frattempo non perdiamo d’occhio le altre parti del mondo, perché importanti manifestazioni anti-sistema possono apparire all’improvviso dove meno ce le aspettiamo.
Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo